Un totale di 24 mummie umane perfettamente conservate e visibili, 219 sarcofagi a forma di animale, la colossale statua del faraone Seti II del peso di cinque tonnellate e alta 5,16 metri, quella seduta dello stesso Ramses II, il busto di Nefertari (ci sono anche due sue gambe imbalsamate) o un papiro funerario (quello di Luefankh) lungo quasi 19 metri che mostra 165 capitoli del Libro dei morti, un catalogo con ogni tipo di incantesimo magico per facilitare il giudizio di Osiride e passare all’aldilà.
Alla scoperta dell’antico Egitto: come Torino è diventata custode di 300.000 reperti

Questi sono alcuni dei tesori raccolti dal Museo Egizio di Torino, il secondo più importante al mondo in materia, secondo solo a quello del Cairo, la cui inaugurazione ufficiale nella nuova sede, vicino alle piramidi di Giza, è prevista per il prossimo 1° novembre, dopo diversi annunci falliti negli ultimi anni. Quello italiano è addirittura più antico, poiché quello del Cairo aprì i battenti solo nel 1909, sebbene fosse stato fondato nel 1902.
La posizione occupata da quello di Torino è dovuta al suo patrimonio di oltre 300.000 oggetti relativi a quattro secoli, dal Paleolitico all’epoca copta, anche se solo circa 4.000 sono esposti al pubblico. O come disse lo storico francese Jean-François Champollion, a cui dobbiamo la decifrazione dei geroglifici grazie allo studio della pietra di Rosetta: “La strada per Menfi e Tebe passa per Torino”.
Il compendio torinese è distribuito su quattro piani e 15 sale che seguono un ordine cronologico e accolgono i visitatori in quello che ospita un tempio completo, quello di Ellesija, di tipo rupestre scavato nella roccia. Fu donato dall’Egitto nel 1966 per non morire sommerso dalle acque del lago Nasser durante la costruzione della diga di Assuan. Il suo trasferimento è stato effettuato pietra dopo pietra, centimetro dopo centimetro, e negli anni ’90 è stato sottoposto a un minuzioso restauro, grazie al quale può essere ammirato così com’era nell’antichità.
Non a caso, fu costruito nel XV secolo a.C. nell’omonima enclave nubiana per ordine del faraone Thutmose III. È uno dei quattro che il Paese arabo ha ceduto a diversi Paesi per il loro salvataggio, insieme a quello di Debot, situato nel Parque del Oeste di Madrid; quello di Dendur, negli Stati Uniti (attualmente si trova nel Museo Metropolitano di New York) e quello di Taffa nei Paesi Bassi.
L’ingresso che ospita il tempio fa parte della ristrutturazione effettuata nel museo dallo studio di architettura olandese OMA in occasione del bicentenario del centro, inaugurato nel 1824 nel bellissimo Palazzo dell’Accademia delle Scienze, a pochi passi dalla centrale piazza del Castello. Lo spettacolare edificio in stile barocco fu progettato dal prestigioso architetto locale Guarino Guarini come scuola per i figli dei nobili molto tempo prima, nel 1678, anche se la sua conversione in mecca dell’arte faraonica sarebbe avvenuta solo quasi due secoli dopo per mano dei monarchi della Casa dei Savoia, che arrivarono a indossare le corone d’Italia, Spagna, Sardegna, Cipro e Gerusalemme.
La ristrutturazione dell’edificio (ancora in corso) mira a trasformarlo in un nuovo spazio civico per tutta la città attraverso sale pubbliche e finestre scoperte. Anche la Galleria dei Re, vero gioiello della corona, con la collezione di statue colossali della città egizia di Tebe, è stata ridisegnata collegandole alla loro collocazione originale con una transizione dall’oscurità alla luce, che ricorda il processo di creazione dell’epoca.
La passione archeologica dei Savoia

Il centro non ha nulla a che vedere con quel Museo dell’Antichità istituito nel 1724 presso l’Università Reale di Torino, dove i Savoia introdussero le prime opere acquisite. La loro passione risaliva a prima, a quando Carlo Emanuele I, noto come il Granduca, acquistò la tela dell’Altare di Iside, un’importante opera liturgica legata al rapporto della dea con gli uomini e con altre divinità, realizzata nel I secolo d.C. A poco a poco, la dinastia aumentò il proprio patrimonio con il sostegno di Vitalino Donati, professore di botanica e appassionato di quella civiltà. “Durante i suoi viaggi in Egitto su incarico di Carlo Manuel III, riuscì a portare all’Università più di 300 oggetti”, spiega la guida locale Andrea Clementino.
Il suo successivo venditore sarebbe stato il console francese in Egitto, Bernardino Drovetti, di origine italiana, al quale acquistarono più di 8.000 oggetti. Quest’ultimo si arruolò nelle file imperialiste di Napoleone, ricoprendo importanti cariche nell’attuale Stato arabo, dove divenne intimo della sua cerchia di potere, ottenendo così l’autorizzazione a effettuare scavi in tutto il Paese.
Portò così preziosi tesori nel Vecchio Continente. Dalle statue di Amenofi I o Thutmose II al busto di Nefertari o al celebre Canone Reale di Torino, chiamato anche Papiro Reale di Torino o Lista dei Re di Torino, un documento redatto in scrittura ieratica e datato all’epoca di Ramses II, in cui vengono passati in rassegna i sovrani dell’Antico Egitto.
La più grande acquisizione avvenne nel 1894, quando il neo-nominato direttore del museo, nonché rinomato archeologo ed egittologo, Ernesto Schiaparelli, aumentò i fondi con acquisti provenienti dagli scavi di Giza, Heliopolis o la Valle delle Regine. Da lì provenivano, ad esempio, i reperti provenienti dall’interno della tomba di Nefertari, la moglie prediletta di Ramses II, considerata la Cappella Sistina dell’Antico Egitto, scoperta nel 1904 dallo stesso Schiaparelli.
“Arrivò a indagare su più di 80 tombe nella valle, anche se la maggior parte erano già state saccheggiate, ma ce n’era una che era rimasta intatta, quella dell’architetto reale Kha e di sua moglie Merit, che vissero durante il regno di Amenhotep II, a Deir el-Medina, il villaggio dei costruttori funerari della Valle dei Re, vicino all’attuale Luxor”, aggiunge Clementino.
Erano conservati persino i fiori secchi depositati sul sarcofago dell’uomo, accanto a una statuetta di legno con il suo nome e il citato Libro dei Morti, ora esposti nel museo insieme a mummie, papiri, statue di faraoni raccolte nella Galleria dei Re, animali imbalsamati (con tombe e tutto il resto), affreschi narrativi o oggetti di uso quotidiano, come vasi, ciotole, coltelli, mestoli, collane, graziosi beauty case con dipinti o poggiatesta in legno per dormire più comodamente e, già che ci siamo, non essere decapitati dagli spiriti.
Non a caso questo è il sesto museo più visitato di tutta Italia e uno dei più originali della città. E non sono pochi. Da quello del Vermouth (qui è nata la bevanda e la conseguente ora dell’aperitivo, oltre alla celebre firma Martini) a quello del Cioccolato. Infatti, i primi cioccolatini del pianeta furono ideati nella capitale del Piemonte dal pasticcere Michele Prochet, che nel 1865 aggiunse le nocciole al cacao per dare forma a un impasto calorico. Ma questa è un’altra storia…
